Aldo Patriciello, eurodeputato di lungo corso e imprenditorie nel settore della sanità, è un fiume in piena. Risponde a tutte le domande poste.
La pandemia – ne è certo – ha cambiato il mondo. Nulla sarà come prima. Adesso la sfida è farsi trovare pronti per saper sfruttare le occasioni che si apriranno con in fondi in arrivo da Bruxelles: basta sprechi, basta ritardi e basta burocrazia, afferma.
Il Molise, per Patriciello, è una candela che si sta spegnendo lentamente. Non è una visione, la sua. Ma la fredda interpretazione dei dati sullo spopolamento. Una sola la soluzione: l’accorpamento con una regione limitrofa, purché sia il Molise a decidere. Non c’è altro tempo da perdere, dunque, altrimenti – il suo ragionamento – saremo costretti a subire scelte imposte dall’alto.
Durissimo, in tal senso, il monito a chi dovrebbe decidere e invece temporeggia: «Se c’è qualcuno che pensa che accorpando il Molise non avrebbe più i voti per una facile elezione in Consiglio regionale ha fatto male i conti. Un territorio è lo spazio vitale di una comunità, non il bancomat elettorale per garantirsi facilmente uno stipendio e una poltrona».
E, ancora, l’inaspettata “promozione” del sindaco grillino Roberto Gravina: «Sta dimostrando equilibrio e moderazione nell’amministrare un’importante città come Campobasso».
A chi sostiene che sia l’eminenza grigia del governo regionale in carica, risponde con un dato: non entro a Palazzo Vitale da tre anni.
Il ruolo dell’Europa nel post pandemia.
«È senza dubbio uno dei principali argomenti all’ordine del giorno. L’epidemia ha obbligato l’Europa a fare i conti sia con le proprie debolezze sia con la propria forza. Nei primi mesi dell’emergenza si è fatto fatica a trovare soluzioni ai problemi di tutti gli Stati. A distanza di un anno, però, la situazione è radicalmente cambiata ed oggi possiamo contare su azioni comuni sia per quanto riguarda il contrasto al Covid, sia da un punto di vista di programmazione economica e finanziaria: il Recovery Plan è il più grande programma di aiuti mai realizzato nella storia europea. Eppure dobbiamo evitare di nasconderci dietro un dito: l’UE soffre di una malattia molto seria, che si chiama “egoismo degli Stati nazionali”. E questa pandemia lo ha dimostrato appieno. Non è un caso che questa crisi sia avvenuta in un ambito, quello sanitario, in cui l’Ue, è bene ricordarlo, ha scarsissima competenza. Ecco, invece di capire che serve più integrazione europea, si continuano ad addossare all’Europa colpe che non ha diffondendo fake news come ad esempio quella di voler annacquare il vino con l’acqua, solo per citarne l’ultima».
Il suo è un punto di vista privilegiato. Lo è da europarlamentare, lo è da imprenditore della sanità. L’Italia e l’Europa avranno la forza di rimettersi in piedi?
«Io credo di sì, ma molto dipenderà dalle scelte politiche che adotteremo e dalla nostra capacità di sfruttare al meglio le grandi risorse a disposizione. Quello a cui abbiamo lavorato nell’ultimo anno è il più grande piano di aiuti economici della storia. Di più: è la dimostrazione che nei momenti più importanti l’Europa c’è ed è pronta a fare la sua parte. Il Recovery Plan è solo una parte di un programma storico e molto più ampio. Stiamo parlando di cifre astronomiche: 2.364,3 miliardi tra i fondi del Recovery, quelli previsti nel prossimo bilancio settennale e gli oltre 540 miliardi euro già disponibili per la protezione delle imprese, dei lavoratori e dei singoli Stati membri. È questa l’Europa che ci piace, quella che serve ai cittadini. L’Europa delle scelte».
Fondamentale la visione del governo nazionale sul Recovery.
«Assolutamente sì. E il Pnrr presentato a Bruxelles dal governo Draghi va nella direzione giusta. È indubbio che il nostro Paese abbia urgente bisogno di puntare in maniera decisa sull’innovazione tecnologica e digitale, sul rafforzamento delle pmi che sono il cuore pulsante della nostra economia, su un grande piano infrastrutturale e di messa in sicurezza dei nostri territori, sul turismo e su una transizione ecologica coerente, che rilanci la competitività dell’Italia senza però sacrificare posti di lavoro. Sullo sfondo, c’è ovviamente il grande tema del rilancio del Mezzogiorno: un problema che non può più essere ignorato. Non esiste crescita dell’Italia se non cresce il Sud».
Soddisfatto della dotazione ‘assegnata’ al Sud? Il 40% del totale assegnato al Paese. Un buon risultato, ma quando l’allora premier Conte stava trattando con Bruxelles le stime erano più alte. Le indiscrezioni parlavano di almeno il 60% al Mezzogiorno, fondi necessari a ridurre il divario con il Nord.
«Non mi appassionano le cifre ma i progetti concreti. È inutile avere un miliardo in più se poi non si sa come spenderlo o, peggio ancora, se non lo si utilizza a dovere. Io credo che sia arrivato finalmente il momento per passare dalle parole ai fatti. Ma non dobbiamo però correre il rischio di impantanarci sui numeri: non è una questione di quantità, ma di qualità della spesa. Il Mezzogiorno ha urgente bisogno di lavoro, di infrastrutture, di asili nido, di incentivi fiscali per chi investe e non di aiuti a pioggia senza una strategia. I fondi del Recovery Plan possono essere un’occasione storica e irripetibile per le regioni del Sud, a patto però di farsi trovare pronti. Basta sprechi, basta ritardi e basta burocrazia. Possiamo e dobbiamo avere idee giuste e tempi certi per realizzarle. Ho grande fiducia nel lavoro che il ministro Carfagna sta portando avanti».
Sud, Molise, spopolamento. A gennaio la nostra regione ha perso altri 349 residenti. Un’emorragia senza fine. Lei, onorevole, è tra i pochi ad aver avviato un ragionamento. Il problema sembra non interessare alla classe dirigente molisana.
«Non prendiamoci in giro: il Molise è come una candela che si sta spegnendo lentamente. Non c’è più tempo da perdere, bisogna discutere l’accorpamento, sia a Roma sia con le regioni limitrofe. Occorre prendere atto che le imprese in questa regione sono alla canna del gas, i giovani vanno via in cerca di lavoro, i paesi si spopolano ogni anno di più, il commercio e l’artigianato stanno scomparendo, le famiglie sono in difficoltà e il mondo agricolo è in piena crisi a causa di una concorrenza sempre più spietata e globalizzata. I dati sono sotto gli occhi di tutti. A chi tocca risolvere questi problemi se non alla politica? Mi rattrista molto vedere che non c’è più nessun dialogo tra le varie forze politiche. Una volta si litigava, ci si scontrava senza esclusione di colpi ma dal confronto, alla fine, venivano fuori soluzioni, idee e nuove progettualità. Oggi invece c’è la corsa al like, al consenso facile un tanto al chilo. Ci tocca leggere comunicati di politici improvvisati che non hanno nulla da dire e nessuna soluzione da offrire. Per il semplice fatto che non sanno cosa significhi creare lavoro perché non hanno mai fatto nulla per questa Regione. Politici alla ricerca continua della polemica inutile solo per un applauso sui social: il festival del nulla. Eppure il problema resta. E se non saremo in grado di gestire e programmare il nostro assetto istituzionale saremo condannati a subire le decisioni che altri prenderanno al posto nostro».
Quanto futuro ha l’autonomia del Molise?
«Io sono stato da sempre uno strenuo difensore della nostra autonomia regionale. Ma bisogna fare i conti con la realtà. Occorre onestà intellettuale e senso di responsabilità: il mondo post Covid non sarà mai più quello di prima. Non si può far finta di niente. Bisogna scegliere se continuare ad assistere alla decadenza di questa Regione senza fare nulla o se invece si vuole provare ad invertire la rotta. Non c’è spazio per i calcoli elettorali e tocca alla classe politica avere una visione più ampia per il bene dei cittadini. Se c’è qualcuno che pensa che accorpando il Molise non avrebbe più i voti per una facile elezione in Consiglio regionale ha fatto male i conti: se si continua così, tra poco, non ci sarà alcuna Consiglio in cui farsi eleggere perché saremo semplicemente cancellati come istituzione. Un territorio è lo spazio vitale di una comunità, non il bancomat elettorale per garantirsi facilmente uno stipendio e una poltrona».
È opinione comune che lei determini le scelte politiche di questa terra, soprattutto nel settore della sanità. Chi conosce le dinamiche di palazzo racconta invece che da mesi non sente il governatore Toma. Chi mente e chi dice il vero?
«Solo chi non mi conosce può pensare una cosa del genere. Per cultura politica e formazione personale sono abituato a non interferire in dinamiche nelle quali non ho responsabilità. Se mi si chiede un consiglio, lo do. Se mi si invita, vado. Diversamente, continuo ad occuparmi della mia attività istituzionale a Bruxelles. L’ultima volta che ho messo piede in Regione è stato tre anni fa, in occasione di una conferenza stampa di partito. Immagini lei».
Marzo 2020, giorno 21. Venafro e Pozzilli non contavano un solo contagiato dal Covid, ma il governatore con propria ordinanza decretò sull’intero territorio dei due comuni la zona rossa. Tra le motivazioni dell’ordinanza Toma scriveva che «la numerosità dei pazienti Covid positivi di Neuromed può configurare l’esistenza di un cluster epidemiologico con potenziale coinvolgimento anche del personale di assistenza (…)». Attenti osservatori hanno letto in questo atto un attacco a lei e alla struttura sanitaria della sua famiglia.
«No, non la ritengo una ricostruzione attendibile. Credo piuttosto che in quell’occasione si sia deciso di cedere alle pressioni di alcuni consiglieri del Movimento 5 stelle che crearono un falso allarmismo con l’obiettivo di addossare all’Istituto Neuromed ogni responsabilità. Un atteggiamento che innescò un effetto domino in tutto il territorio: centinaia di sindaci diffusero comunicati allarmistici, preoccupati per un contagio che in quella occasione non ci fu. È stata una situazione dura per tutti, ma in tutta onestà, in quel periodo, il pensiero e gli sforzi erano rivolti esclusivamente a salvare la vita di coloro che avevano contratto il virus e a garantire loro le migliori cure possibili. Quando in gioco c’è la salute dei cittadini non c’è spazio per tatticismi politici o giochi di palazzo. Spero che i nuovi commissari alla sanità la pensino allo stesso modo e che lavorino per fare gli interessi esclusivi dei cittadini molisani e non dei partiti che li hanno nominati».
Ha mai pensato di delocalizzare i suoi investimenti? Ovvero, le è mai passato per la testa di spostare Neuromed in un’altra regione?
«Onestamente sì. Neuromed è considerata, in Italia e in Europa, un punto di riferimento di assoluta eccellenza nel campo delle neuroscienze e della ricerca scientifica in generale. È triste e sconfortante vedere come qui in Molise venga invece usata come pretesto per strumentalizzazioni politiche».
Da imprenditore e da osservatore privilegiato, se un suo collega tedesco le chiedesse a Bruxelles di giudicare l’operato della giunta regionale, di cui suo cognato è vicepresidente, come risponderebbe?
«Non spetta certo a me dare giudizi, rischierei di essere di parte e non mi piace. Ho grande rispetto per il lavoro di chi ricopre incarichi di responsabilità politica, specie in un periodo come questo in cui si è alle prese con la più grave crisi economica e sanitaria dal dopoguerra. Ma il giudizio che conta rimane sempre quello degli elettori. Chi mi conosce, poi, sa bene come io sia legato più agli uomini che ai partiti, perché sono gli uomini a fare i partiti e non viceversa. Guardi il Movimento 5 stelle molisano, ad esempio: c’è chi un giorno sì e l’altro pure fa demagogia pensando di essere ancora in campagna elettorale usando un linguaggio violento e privo di contenuti e chi invece, come il sindaco Gravina, sta dimostrando equilibrio e moderazione nell’amministrare un’importante città come Campobasso, al di là del giudizio che si può dare dei singoli atti amministrativi. Per quanto mi riguarda io non ho nemici, ma solo avversari politici con i quali, se in buona fede e senza pregiudizi, sono sempre pronto al dialogo e a lavorare insieme. Ecco, io credo che un po’ più di moderazione non faccia male alla politica. Non si può andare a caccia di voti fomentando odio e rancore, non è onesto intellettualmente né utile politicamente. Non mi ci ritrovo in questo modo di fare politica. Sarò pure della vecchia scuola ma credo ancora che è nel confronto aperto che sia possibile trovare le soluzioni ai problemi dei cittadini. Preferisco avere un like in meno ma creare un posto di lavoro in più».
Siamo abituati a vederla sempre iperattivo, infaticabile. Per certi versi invincibile. In questi 14 mesi c’è stato un momento in cui ha avuto paura, un momento in cui ha pensato che il Covid potesse annientare anni di lavoro?
«Io credo che il Covid abbia cambiato ciascuno di noi nel profondo. E non poteva essere altrimenti. Ognuno ha perso un familiare, un parente, un caro amico, un collega di lavoro. Siamo stati catapultati in una dimensione di preoccupazione e sconforto che ci ha costretto a fare i conti con una realtà che mai avremmo pensato di affrontare. Ma prima dell’impresa, vengono le persone. Sempre».
A Bruxelles dal 2006. Al quarto mandato, è tra gli eurodeputati italiani più longevi. Desiderio di continuare la ‘carriera’ politica a Roma?
«Lo ritengo un orizzonte improbabile. L’Unione Europea ha davanti a sé enormi sfide nei prossimi anni: dal Green Deal al Recovery Plan è ormai chiaro a tutti che il futuro dell’Europa è quello di stare insieme e che nessuno si salva da solo. Sono e resto a Bruxelles, quindi. Orgoglioso di rappresentare il mezzogiorno d’Italia al Parlamento europeo. Chi pensa di poter fare a meno dell’Ue in un mondo globalizzato in cui forte è l’ascesa di superpotenze come Cina, India e Russia non ha fatto in conti con la realtà».
Chi la conosce bene racconta che il suo piccolo sogno è lo scranno da sindaco al Comune di Venafro, dove tutto è cominciato.
«Lei vuole farmi litigare con mia moglie. No, scherzi a parte: Venafro resta il luogo del cuore, la città in cui sono nato e cresciuto e in cui ho iniziato la mia attività politica negli anni ’80. Ecco perché dispiace vederla abbandonata a se stessa e trascurata. Inutile girarci intorno: Venafro è una città morta, un centro urbano dalle grandi potenzialità, purtroppo inespresse. Prima ancora che un politico sono un imprenditore figlio di questa terra: ogni giorno vengo contattato da persone in cerca di lavoro, soprattutto giovani. Ho sempre cercato di dare una mano e continuo a farlo, ma non ho la bacchetta magica per risolvere i problemi di tutti. Sono preoccupatissimo per il futuro delle prossime generazioni: i nostri ragazzi meritano di vivere in una città all’altezza delle loro aspirazioni».
Luca Colella

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