Il mondo è pieno di storie di resilienza. Di vicende umane con protagonisti donne e uomini dalla forza inestimabile. Persone che nel momento più buio hanno raccolto le forze per risollevarsi e dimostrare a tutti di valere più di quanto chiunque potesse immaginare. La storia di Emilio Ciccone, artista bojanese che ha attraversato il mondo, è una di queste. Una di quelle storie in grado di toccare le corde del cuore e far emergere la forza dirompente della passione, quella che può valicare ogni confine. Emilio infatti dalla fine degli anni Novanta è un artista di successo. Dipinge, e lo fa divinamente, imprimendo volti e corpi su tela, ad olio. Ma dipinge bene a tal punto da collaborare con la ‘Top Art’ di Milano per circa 10 anni. La stessa galleria che poi gli consente di far arrivare una delle sue opere più famose persino sullo schermo delle televisioni di tutto il mondo. È proprio un suo quadro, infatti, a campeggiare nella sala delle riunioni dei protagonisti della serie tv ‘Gomorra’. Insomma, quella passione per l’arte che affonda le radici fin nella sua infanzia, quando non riusciva proprio a contenere la smania di plasmare e disegnare, è diventata pian piano un mestiere. Emilio è quindi un artista a tutti gli effetti e il successo lo travolge a tal punto da ottenere persino un contratto con una galleria di Toronto, in Canada. A quel punto decide con tutta la famiglia di trasferirsi lì. «Non avendo la cittadinanza o un permesso di soggiorno viaggiavo continuamente – spiega -. Mia moglie invece per fortuna è nata proprio lì, quindi potevo contare sul fatto che per lei e per i miei figli non ci fossero problemi a rimanere, chi per lavoro, chi per proseguire con gli studi». Dopo qualche mese, però, Emilio inizia ad avere problemi alla vista, ad un occhio in particolare. «All’inizio è stato un vero incubo. Navigavo nell’incertezza. Speravo fosse una cosa passeggera, una cosa che potesse guarire – racconta -. Fui ricoverato quindi una prima volta a Pozzilli e mi dissero che poteva trattarsi di un sintomo della sclerosi multipla. Dopo una serie di viaggi di andata e ritorno dal Canada all’Italia però iniziarono i problemi anche all’altro occhio. E il secondo ricovero fu una vera batosta: le analisi del Dna a cui fui sottoposto diedero un esito devastante. Avevo la neuropatia ottica di Leber. Una malattia ereditaria neurodegenerativa del nervo ottico, che spesso si caratterizza per una perdita improvvisa della vista» spiega l’artista bojanese. Di lì in avanti il buio. «Riesco a percepire una sorta di nebbia molto fitta, quindi a tratti posso percepire le sagome in base alle condizioni di luce, ma ci sono dei punti dei miei occhi completamente ciechi» rivela. Nel frattempo la corsa alle soluzioni: terapie di staminali in Germania, pesanti terapie al cortisone, ma niente. Nessuna di queste riusciva a guarire quella brutta malattia a cui ormai Emilio ha fatto l’abitudine. «Lo ammetto – dice – è stata ed è ancora durissima. La cosa più difficile in questi casi è accettare il perché proprio a te. Me lo sono domandato spesso. Ma una risposta non c’è». Ed è proprio così, perché tutto può sembrare in prima battuta uno scherzo del destino davvero di cattivo gusto, a maggior ragione per un artista, un talentuoso pittore. E invece è la vita. È la vita che talvolta riserva belle e brutte sorprese. «Dopo quella prima fase di metabolizzazione mi sono promesso di dovermi rialzare. Ma è stata anche la mia viscerale ed irrefrenabile passione per l’arte a riemergere come un fiume carsico che per un po’ sembrava dovesse sopirsi sotto i duri colpi della malattia. È allora che il mio processo creativo è passato dalla pittura alla scultura». Ora infatti Emilio crea delle formidabili opere, e lo fa unicamente con l’ausilio del tatto. Opere in cui è in grado di infondere la sua stessa anima, in un fluire di emozioni che passa dal suo cuore agli oggetti che crea utilizzando specifici calcoli che gli consentono di modellare le proporzioni e i tratti fisionomici dei soggetti che crea. Operazioni che possono durare anche ore ed ore e che si concludono sempre nella stessa maniera: nella doppia cottura dell’argilla che poi diventa ceramica. Singolare dei suoi sforzi creativi è però il fatto che Emilio al termine di essi non può apprezzare realmente i prodotti del suo stesso genio. Possono farlo solamente gli altri. Ma in quel tocco, in quelle fossette impresse dalle sue dita, Emilio non sa che si percepisce tutto se stesso. Tutto il mondo che si porta dentro. Infatti, nonostante gli anni di esperienza e gli incredibili successi, resta ben ancorato, con tanta umiltà, con i piedi per terra. «Non so se a volte le mie opere vengono acquistate per pietà o se davvero piacciano alle persone» racconta commosso. Il grande privilegio di poterle ammirare, lui, non ce l’ha più. Ma quelle opere sono invece la dimostrazione del fatto che l’arte sia il veicolo privilegiato dalle emozioni umane, quello che non è fatto tanto di stilemi estetici e schemi fissi ma da esperienze di vita vera. «Lo dico con sincerità: sarei rimasto volentieri in Canada almeno per una decina d’anni, o chissà quanto – afferma poi -. Ma oggi devo ammettere che da quest’esperienza ho imparato anche che la vita va goduta nelle sue piccole sfaccettature, nella semplicità delle cose. Fortuna nella sfortuna è stato perlomeno scoprire che non posso trasmettere questa brutta malattia ai miei figli». Già, ma se da una parte ai suoi figli Emilio non ha fortunatamente trasmesso la malattia, dall’altra è fierissimo di aver trasmesso loro la sua passione. «Mio figlio maggiore infatti, Lorenzo, è cresciuto in bottega con me, fino a frequentare il liceo artistico. La genetica mi ha insegnato che può riservare brutte e belle sorprese. Questa è una di quelle belle» spiega. «Non so cosa mi riserverà il futuro: si cerca di andare avanti. Forse aprirò un sito web, ma vediamo cosa accadrà. Speriamo qualcosa di buono, almeno per la mia famiglia – conclude -. La vita infatti mi ha insegnato che non puoi mai sapere cosa ti accade».
R.G.

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